Uscire da un lager nazista, ma soprattutto dalla scia di follia che l’esperienza prima durante e dopo un lager nazista comporta, non è un’impresa semplice. Primo Levi, per esempio, non ce l’ha fatta. Liliana Segre, al contrario, ha mostrato alle classi quinte del liceo Crespi, riunite eccezionalmente la mattina di lunedi’ 11 gennaio 2016 al Museo del Tessile per ascoltarla, tutta la forza di una donna che ha saputo uscire dal labirinto di Auschwitz, ritrovando il filo di una narrazione serrata, lucida, coinvolgente, fatta di ricordi, ma anche di considerazioni e analisi sul presente. A suggello della storia, che infine ha fatto alzare la platea in piedi ad applaudire, una delle ultime testimoni viventi dell’Olocausto, ripresa dalle telecamere Rai, è il messaggio che segue: “Non dite mai io non ce la faccio. Se ce l’ho fatta io, in quelle condizioni, ce la fate anche voi a superare le prove della vita”, ha affermato Liliana Segre. Se c’è un’attualità nel racconto di un’epoca che se Dio vuole non tornerà più, riguarda la capacità di una donna qualunque, “una borghese piccola piccola” come si è definita, di rimettersi in piedi dopo una tale discesa agli inferi: “Tornai dalla Germania che ero una ragazza brutta, grassa, che diceva parolacce e si ingozzava di cibo. Per anni mi sono chiusa nel silenzio. Solo con l’amore per mio marito e mio figlio ho capito veramente il valore della mia scelta”. Liliana racconta delle porte chiuse in faccia, quelle ricevute prima dalla scuola proibita agli ebrei, poi da una Milano silente al grido di dolore di una bimba rinchiusa nel carcere di San Vittore per il solo delitto di essere nata, e quella rifilata all’amica Janin, finita nelle grinfie del dottor Mengele senza che lei neppure la salutasse, rimpiangendolo e rimproverandoselo per tutta la vita. A lei, oggi, si può solo immaginare come proprio la vita abbia riservato pagine che farebbero sbiancare al confronto anche il canto dantesco del conte Ugolino: “Non ho fatto cannibalismo solo perché non ne ho avuta occasione, confessavo serenamente alla mia docente di lettere al liceo, nel Dopoguerra”. Ora, né la magrissima lavoratrice schiava alle fabbriche di armamenti Union, né la sua controfigura restituita all’Italia, esistono più. Al loro posto c’è una nonna, che con amore e forza, a favore di telecamere e dei suoi “nipoti ideali”, ha ripercorso con la stessa tenacia il filo della narrazione, che pone un argine alla follia di ciò che è stata la peggiore specie di discriminazione tra esseri umani: “Per anni ho odiato i nazisti, miei aguzzini. Quando scoprii che in realtà mi facevano pena, povere vittime di una ideologia malata, capii che ero maturata. Che allora, quando non colsi l’occasione di vendicarmi su uno di loro che si disarmò gettandomi la pistola ai piedi, a differenza loro, io avevo scelto la vita”.
Ecco un breve video dell’incontro:
Carlo Colombo